L’aumento di patologie legate alla salute mentale dei cittadini è l’altro lato dell’epidemia.

Uno dei molti altri lati. Quelli che non si misurano in tamponi positivi, ma che hanno ricadute spesso altrettanto preoccupanti. E non ci sono solo gli ospedali a riscontrare, nei numeri e nelle testimonianze, la crescita di questa tipologia di disturbi.

A confermarlo anche le comunità di riabilitazione psichiatrica, fra cui la fondazione Emilia Bosis, una delle strutture con più posti letto della Bergamasca. «È vero, in questa fase di recrudescenza dell’epidemia abbiamo notato un chiaro aumento di pazienti con disturbi di personalità conferma lo psichiatra Carlo Saffioti, che della fondazione è direttore sanitario. Parliamo nella gran parte dei casi di persone giovani, fra i 18 e 25 anni, che vengono indirizzati da noi direttamente dai Servizi psichiatrici ospedalieri quando sono ancora in una fase semiacuta della patologia. Per questa tipologia di pazienti le condizioni di distacco in cui sono costretti a vivere da settimane si rivelano particolarmente drammatiche: le percepiscono come un abbandono, stentano a sopportare la separazione, l’isolamento, e hanno difficoltà a superare il sentimento di frustrazione che deriva pro prio da questo periodo». Difficoltà aggravate da numerosi fattori: «Più in generale, possiamo dire che la prima ondata dell’epidemia era stata vissuta dai nostri ospiti con maggiore tranquillità. Adesso il divieto assoluto di uscire, così come quello di poter tornare a casa, viene sopportato con grande fatica. Inoltre i pazienti con fragilità psichiatriche percepiscono la comunicazione attuale come una comunicazione ansiogena: il continuo richiamo alla morte, i numeri trasmessi quotidianamente, fanno sì che si perda di vista l’entità del fenomeno e si brancoli invece nell’incertezza».

NESSUNA IMPOSIZIONE

A pesare sugli ospiti delle comunità psichiatriche c’è però un ulteriore fattore che secondo il presidente della fondazione Emilia Bosis Piergiacomo Lucchini l’epidemia ha solo contribuito a rendere più evidente. «È il fattore stigma spiega proprio Lucchini. Le persone che si rivolgono alle nostre strutture lo fanno in maniera volontaria, e ci restano in maniera volontaria: non hanno alcun obbligo a permanere nelle nostre strutture, la legge non prevede alcuna imposizione. E allora non si capisce come mai i nostri ospiti non possano godere degli stessi diritti e delle stesse aperture concesse agli altri cittadini in questo periodo. È concesso fare una passeggiata? È concesso prendere un caffè da asporto? Perché le persone con disturbi legati alla salute mentale non lo possono fare? Ripeto: sono ospiti volontari. Se li si costringe all’isolamento assoluto, si accentua un effetto stigma che non fa solo che peggiorare la situazione». Una situazione di fronte alla quale operatori e addetti delle comunità psichiatriche s’inventano qualsiasi cosa pur di regalare un briciolo di serenità.

«Meglio dire di normalità precisa Lucchini, perché è proprio la normalità che aggrava la condizione dei nostri ospiti. Ci stiamo inventando tornei, aperitivi, attività che diano alla vita da segregati una parvenza di ordinarietà. Ma le contraddizioni che i pazienti psichiatrici, obbligati all’isolamento assoluto pur essendo ospiti volontari, non fanno che remarci contro: basti pensare che sono diverse le dimissioni di pazienti registrate delle comunità psichiatriche, nel nostro caso limitate fortunatamente ad una sola persona.

Per i nostri pazienti il Covid-19 rappresenta un pericolo così come per tutti gli altri cittadini.

Ma c’è un altro virus che, invece, colpisce solo le persone con disturbi psichiatrici: è lo stigma, i cui effetti negativi in questo periodo di isolamento assoluto sono facilmente percepibili. Ahinoi».

Fonte: Eco di Bergamo