La fase due non è solo quella della ripresa. Chiusa – così si spera – l’esperienza del lockdown, superata la fase della primissima emergenza, sfumato nella memoria il canto ininterrotto delle sirene delle ambulanze, adesso c’è da fare i conti con un’altra criticità. Quella che viene dai pazienti psichiatrici, vecchi o nuovi che siano. Persone che già soffrivano di disturbi prima dell’epidemia, e persone che – invece – iniziano a manifestare i primi segni di malessere adesso che la crisi sanitaria sembra essere sotto controllo. Le richieste di aiuto da parte di entrambe le categorie sono in aumento.
«Ce lo aspettavamo – fa sapere Emi Bondi, primario di Psichiatria dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo –. È un fenomeno che si registra dopo i grandi traumi collettivi: ricordo molto bene quando si verificò con l’onda lunga della crisi economica del 2008, la perdita del lavoro portò a un aumento di patologie psichiatriche anche minori, disturbo dell’umore, depressione, ansia. Ed è quello che sta succedendo anche nella fase due di quest’emergenza». Paradossalmente, chi soffre di disturbi psichiatrici sembra aver retto durante il primo periodo, quello più buio, dell’epidemia da coronavirus, per poi accusare il colpo in seconda battuta.
«Ci sono diverse ragioni che spiegano questo comportamento. In primis va ricordato che questi pazienti, anche nel periodo peggiore della crisi, non sono mai stati lasciati soli: le cure, l’assistenza e le terapie non sono mai state interrotte, sia l’ospedale che la rete di servizi territoriali hanno continuato a lavorare stando al loro fianco. Secondo, bisogna tenere presente che in molti casi chi soffre di patologie psichiatriche ha più problemi nel socializzare che nel rimanere fra le mura di casa: l’isolamento imposto dal lockdown quindi non è stato, nella maggior parte dei nostri pazienti, fonte di ulteriori problemi». Adesso, però, c’è da fare i conti con i traumi, con i nodi che vengono al pettine. «E succede nella fase due: emergono drammi che, nel periodo acuto dell’emergenza, non avevano avuto modo di essere elaborati.
È soprattutto quando ci si sente fuori dal pericolo che compaiono i sintomi post-traumatici: stress, ansia, depressione, disturbi dell’umore, comportamenti autolesionistici. Ecco perché stiamo attivando linee di attività dedicate a seguire questo tipo di disturbi. Sia per chi era già in cura, sia per chi ha sviluppato solo recentemente queste patologie». Patologie che ben conosce anche Carlo Saffioti, psichiatra e direttore sanitario delle comunità di riabilitazione della fondazione Emilia Bosis. «Confermo: anche i nostri pazienti hanno retto il periodo, seppur estremamente difficile, di chiusura. E lo hanno fatto con comportamenti estremamente responsabili, che ben dimostrano come abbiano compreso l’importante ruolo che ciascuno di noi svolge nel fermare la catena del contagio.
Detto questo, va anche ricordato che i nostri pazienti sono stati fra i più penalizzati da questa emergenza: chi arriva in una comunità di riabilitazione è spesso a un passo dal ritorno alla vita normale, alla socializzazione, grazie a importanti progetti di reinserimento». Progetti che, con l’emergenza, si sono dovuti tutti interrompere, uno dietro l’altro: corsi universitari, corsi di formazione professionale, allenamenti sportivi, perfino attività di reinserimento lavorativo. Tutti bloccati. «E di questo i nostri pazienti hanno molto sofferto – chiarisce Saffioti – anche se siamo riusciti a coinvolgerli su attività svolte all’interno della nostra struttura. Struttura che, grazie a misure applicate rigidamente, non ha mai avuto ospiti contagiati. Ora però è necessario che anche i pazienti psichiatrici possano tornare alla normalità, come tutti noi: la nostra richiesta principale è che siano consentiti i permessi per fare visite a casa, ai familiari: permessi ad oggi ancora sospesi».
Fonte:ecodibergamo.it